Il cuore della storia è l’asimmetria tra ciò che appare e ciò che conta: gli acquisti ufficiali di oro da parte della PBoC sono minuscoli a confronto dei flussi reali, secondo stime che indicano importazioni fino a 250 tonnellate nel 2024, un terzo della domanda mondiale delle Banche centrali.
Le comunicazioni pubbliche parlano di incrementi mensili nell’ordine di 1,9–2,2 tonnellate in estate, numeri che pochi credono rappresentino la realtà di mercato. Proprio questa opacità ha reso l’oro un asset “politico”, cardine della strategia di de-dollarizzazione di Pechino, e croce per i trader che cercano di prevedere i movimenti di prezzo in un mercato dominato dagli acquisti sovrani.
L’assenza di tracciabilità è la regola, non l’eccezione: a differenza del petrolio, l’oro non si segue via satellite, e la transumanza dei lingotti tra raffinerie svizzere o sudafricane, hub londinesi e vault cinesi lascia scie solo parziali.
In questo scenario, la Cina - primo produttore e primo consumatore di oro al mondo - resta tra gli attori meno trasparenti: Bruce Ikemizu, direttore della Japan Bullion Market Association, ha detto al Financial Times di stimare riserve prossime a 5.000 tonnellate, circa il doppio del dichiarato, una forbice che spiega tanto il rally, che lo scorso 20 ottobre ha spinto un'oncia d'oro fino a 4.381,21 dollari (Grafico prezzo oro), quanto la difficoltà di leggere i fondamentali.
Cina: l’era dell’oro segreto
In un decennio la quota dell’oro nelle riserve ex-USA è salita dal 10% al 26%, diventando il secondo asset di riserva dopo il dollaro. Eppure la trasparenza è evaporata: nell’ultimo trimestre, solo un terzo degli acquisti ufficiali è stato riportato al FMI, contro circa il 90% quattro anni fa, secondo stime WGC basate su dati Metals Focus. Le motivazioni sono finanziarie e geopolitiche: evitare front-running del mercato, non incrinare relazioni politiche, e non segnalare apertamente un hedge anti-dollaro, soprattutto in un contesto sensibile con Washington.
La memoria del mercato ricorda il “precedente Brown”: l’annuncio del 1999 sulla vendita di metà delle riserve britanniche schiacciò i prezzi a 275 dollari l’oncia, un quindicesimo dei livelli attuali, prova che la comunicazione può essere costosa.
Oggi molte Banche centrali scelgono il silenzio, mentre operatori e analisti si affidano a proxy: esportazioni UK di 400 oz (11,34 Kg) verso la Cina - la forma preferita dai bilanci ufficiali - o il “gap” tra import netto, produzione domestica e acquisti di banche commerciali e retail. Con questi strumenti, Plenum Research stima per la Cina un “gap” attribuibile ad acquisti ufficiali di 1.351 tonnellate nel 2023 e 1.382 nel 2022, oltre sei volte gli acquisti ufficiali in quegli anni.
L’architettura dell’accumulo
Il programma ufficiale è gestito dalla State Administration of Foreign Exchange (SAFE), braccio della PBoC, con obiettivi a uno e cinque anni e riserve stoccate a Shanghai e Pechino: gli acquisti dichiarati nel 2024 ammontano a circa 25 tonnellate, ma la macchina è più ampia.
Oltre a SAFE e ai suoi intermediari, intervengono il fondo sovrano CIC e persino l’esercito, soggetti non vincolati a disclosure tempestive, fattore che rafforza la nebbia statistica. Tra i proxy più seguiti, le esportazioni d’oro del Regno Unito verso la Cina: Société Générale stima import SAFE attorno a 250 tonnellate nel 2024.
Non sorprende quindi che molti analisti evitino stime puntuali sugli acquisti PBoC: il livello è, per definizione, difficile da conoscere e ogni metodo coglie solo una parte dell’enigma.