Non rimane molto tempo all'Amministratore Delegato di
MPS, Luigi Lovaglio, per trovare chi sottoscriverà, oltre al Tesoro, l'
aumento di capitale in programma per il 17 ottobre. Mercoledì la
CONSOB potrebbe approvare il prospetto informativo, ma all'appello mancano ancora, tenendo conto degli 1,6 miliardi pro-quota del Tesoro, 900 milioni di euro.
Ormai appare certo il contributo di Axa, che dovrebbe mettere in campo 100-200 milioni di euro. Il vero scoglio è l'altro grande investitore con cui sta trattando Lovaglio, ossia Anima Holding, la cui partecipazione sarebbe legata a un accordo commerciale: si tratta di un aspetto che potrebbe raffreddare le banche del consorzio e mandare a monte l'operazione.
Infatti, gli istituti di credito hanno firmato un accordo di pre-sottoscrizione, ma hanno chiesto come condizione un impegno concreto da parte degli investitori. Se anche Anima dovesse fornire un importo simile a quello di Axa, rimarrebbero in sospeso altri 400-500 milioni, che dovranno essere appannaggio di banche, fondazioni, hedge fund e società d'investimento. Insomma, se non si è in alto mare, la situazione non è certo risolta.
Sullo sfondo si aggira lo spettro del Burden Sharing, esattamente come avvenne nel 2017. Si tratterebbe di una soluzione non del tutto sgradita al mercato, visto che implicherebbe un taglio dell'indebitamento, con gli obbligazionisti subordinati che si troverebbero un
haircut dei propri titoli tra il 20% e il 50%.
MPS: è necessario l'aumento di capitale subito?
Da alcune indiscrezioni degli ultimi giorni è trapelata l'ipotesi che il 17 ottobre potrebbe non essere la data dell'aumento di capitale per la banca senese. Tra gli scenari alternativi, il primo riguarda un
rinvio dell'operazione di un paio di mesi o addirittura nel primo trimestre del prossimo anno, in modo da avere il tempo materiale per definire alcuni aspetti con le banche e gli eventuali investitori. Nel frattempo si potrebbe fare avanti qualche big di Piazza Affari, come
UniCredit o
Intesa Sanpaolo per rilevare l'istituto di Rocca Salimbeni.
Questo però fa parte del gioco al risiko bancario, che avrebbe bisogno di un sostegno più concreto, magari in prospettiva dell'insediamento del nuovo Governo a Palazzo Chigi.
L'altra possibilità sarebbe quella di rinunciare all'aumento di capitale, avallando modalità di raccolta fondi come lo swap del debito con azioni, ferma restando l'accettazione dei creditori, oppure lo smobilizzo di asset in portafoglio. Tutto ciò ovviamente dovrebbe passare al vaglio delle Autorità di regolamentazione, ma quella che fino a poco tempo fa sembrava una strada impraticabile ora comincia ad acquistare quota viste le difficoltà oggettive di procedere effettivamente a una ricapitalizzazione di questa portata.
Certo, non è la prima volta che la dissestata banca toscana ricade in questa pratica di rafforzamento patrimoniale. Se dovesse essere avviato, questo sarebbe l'ottavo aumento di capitale in circa 15 anni, dopo quelli eseguiti nel 2008 per 5 miliardi euro, nel 2009 per 1 miliardo attraverso i Tremonti Bond, nel 2011 per 2,15 miliardi, nel 2013 per 4 miliardi con i Monti Bond, nel 2014 per altri 6 miliardi, nel 2015 per 3 miliardi e infine nel 2017 per 5,4 miliardi, cui si è aggiunto il burden sharing per 2,9 miliardi.
Stavolta però vi sono difficoltà in più, perché sembra che gli investitori non siano molto interessati all'affare, vuoi per le scarse performance della banca, vuoi per le questioni relative agli stress test, vuoi ancora per le spese legali relative ai contenziosi in essere che potrebbero rivelarsi decisamente elevate.