Esistono ETF poco pubblicizzati perché non fanno eccessivo rumore di marketing, ma molto efficaci soprattutto se rapportati a quelli che sono gli strumenti che operano nello stesso “terreno” e con numeri di masse amministrate decisamente più importanti. Uno di questi esempi è quello che contrappone l’investimento sui mercati emergenti di frontiera agli emergenti più tradizionali che investono in paesi come Cina, India e Brasile.
Il risultato degli ultimi 10 anni ha del clamoroso ed è strano che nessun media specializzato abbia finora riportato la notizia. I paesi emergenti di frontiera hanno letteralmente “stracciato” quelli classici. Ma c’è un motivo anche tecnico e lo capiremo tra poco.
La Cina, ovvero quella potenza mondiale dell’economia che dovrebbe, nelle previsioni degli analisti, sorpassare presto gli Stati Uniti, si è rivelato un fattore di freno per gli investitori che hanno sposato la causa, non di accelerazione. Il confronto è tra due ETF a replica sintetica di Xtrackers con una storicità consolidata visto che esistono dal 2007.
Il primo è l’ETF Xtrackers Msci Emerging Market Swap, il secondo è l’ETF Xtrackers S&P Select Frontier Swap. Il grafico ci fa vedere cosa è successo negli ultimi 10 anni. I mercati emergenti di frontiera hanno superato di quasi l'80% quelli emergenti più tradizionali.
ETF mercati emergenti di frontiera liberi da zavorra cinese
Gli investitori non si sono accorti del fenomeno a giudicare da masse dell’ETF che investe sugli emergenti di frontiera ancora inferiori ai 100 milioni di euro. ETF indubbiamente con costi da “fondo” di investimento (0,95%), ma che offre l’esposizione ad una parte di mercati emergenti libera dalla zavorra cinese e più esposta a crescita e anche crisi economiche per Paesi, scusate il gioco di parole, meno emergenti.
Infatti, per mercati emergenti di frontiera, si intendono quei paesi con economie e mercati dei capitali meno sviluppati dei tradizionali Paesi emergenti. L’Argentina, ad esempio, dopo anni di permanenza nel mercato emergente tradizionale è scesa (ma non vale per tutti i provider di indici) tra i mercati di frontiera ed oggi rappresenta quasi il 30% dell’ETF. Segue il Vietnam con il 25% e poi paesi come Panama, Islanda, Nigeria, Uruguay.
L’ETF presente a livello settoriale una polarizzazione verso la finanza (30%) e i beni voluttuari (17%) seguiti da industriali ed energia. La metà del portafoglio è esposta al dollaro Usa mentre il resto è esposto alle valute locali.
Gli indici di riferimento fanno però la differenza. Xtrackers replica infatti l’indice S&P, mentre l’altro celebre indice, quello di Msci, non annovera l’Argentina tra i Paesi del paniere più “pesanti” con Vietnam, Marocco, Romania e Islanda ai primi posti. Ancora più dominante in questo caso la finanza con il 38% dell’indice occupati da banche.
E le differenze tra i due indici spiegano in parte anche l’eccellente performance dell’ETF di Xtrackers che investe nei mercati di frontiera.
Il confronto tra indici S&P e Msci evidenzia a 10 anni un tasso di crescita composto del 6,8% per il primo contro il 3,2% per il secondo. Una differenza notevole che ridimensiona il fenomeno e soprattutto lo rende molto dipendente da scelte che hanno una discreta dose di fortuna negli esiti finali.
Evidente quindi come per questi ETF in particolare, molto concentrati a livello geografico su Paesi estremamente volatili e instabili, la scelta dell’indice si rivela decisiva. Nel caso appena discusso decisiva in senso positivo, visto l’eccellente livello di performance raggiunto dall’ETF che investe sui mercati di frontiera rispetto agli emergenti tradizionali. Il consiglio è sempre quello di fare un’analisi critica degli indici sottostanti un ETF per capire pregi e difetti che possono essere incorporati nello strumento.