I mercati finanziari continuano a navigare in acque agitate, preda della volatilità innescata dalle crescenti frizioni tra Stati Uniti e Cina. L'ultima scossa è giunta ieri da Washington: con un post pubblicato su Truth Social poco prima della chiusura, Trump ha etichettato la mancata ripresa degli acquisti cinesi di soia americana come un "atto economico ostile".
A fronte del rifiuto di Pechino, che pur essendo stato il principale acquirente del raccolto USA lo scorso anno non ha finalizzato alcun ordine da maggio, Trump ha minacciato di paralizzare ogni transazione commerciale con la Cina "riguardante l'olio da cucina".
Chi paga il conto della guerra commerciale USA-Cina?
Secondo Goldman Sachs, saranno i consumatori statunitensi a sopportare la parte più pesante dei dazi imposti dall'amministrazione Trump. Dall’analisi della banca newyorkese emerge che il 55% dei costi dei dazi USA ricadrà sui cittadini americani, contro il 22% a carico delle imprese nazionali e il 18% assorbito dagli esportatori esteri, in gran parte cinesi. Il restante 5% sfuggirà al prelievo doganale grazie a elusioni o riorganizzazioni delle catene di fornitura.
Gli economisti di Goldman Sachs, tra cui Elsie Peng e David Mericle, hanno precisato che le aziende statunitensi “stanno probabilmente sostenendo una quota maggiore dei costi poiché alcuni dazi sono appena entrati in vigore e occorre tempo per adeguare i prezzi al consumo e negoziare condizioni più favorevoli con i fornitori stranieri”. In altre parole, la traslazione sui prezzi finali è solo questione di mesi: presto saranno i consumatori a pagare.
L’analisi di Goldman contraddice apertamente la narrazione della Casa Bianca. L’amministrazione Trump continua infatti a sostenere che “il costo dei dazi sarà in ultima analisi sopportato dagli esportatori stranieri”, come ha dichiarato il portavoce Kush Desai, ribadendo che le tariffe “stanno correggendo uno status quo rotto che ha messo l’America in secondo piano”.
Ma i numeri raccontano un’altra storia. Secondo il Bureau of Labor Statistics, ad agosto i prezzi al consumo erano superiori del 2,9% rispetto all’anno precedente, con rincari diffusi su abbigliamento, mobili, alimentari e componenti auto: tutti beni sensibili ai dazi. Goldman calcola che le nuove tariffe abbiano già aggiunto 0,44 punti percentuali all’indice core PCE, la misura d’inflazione preferita dalla Federal Reserve, che potrebbe salire fino al 3% entro dicembre.
I dazi USA spingono i prezzi
A sostenere la tesi che i dazi USA non sono pagati dagli esportatori stranieri, ma dalle stesse imprese e famiglie americane è anche Alberto Cavallo, professore di economia aziendale presso l'Università di Harvard. "La maggior parte dei costi sembra ricadere sulle imprese statunitensi”. Cavallo, insieme ai ricercatori Paola Llamas e Franco Vazquez, ha monitorato i prezzi di oltre 359.000 prodotti venduti online e nei negozi fisici americani, rilevando che i prezzi dei beni importati sono aumentati del 4% da marzo, mentre quelli domestici hanno subito un rincaro del 2%.
L’impatto maggiore si registra su prodotti che gli Stati Uniti non possono produrre internamente, come il caffè, o provenienti da Paesi fortemente penalizzati, come la Turchia. Gli incrementi di prezzo, pur inferiori all’aliquota tariffaria applicata, mostrano che le aziende importatrici stanno assorbendo parte dei costi. Tuttavia, gli aumenti alla produzione e la debolezza del dollaro hanno spinto anche gli esportatori stranieri a ritoccare i listini in dollari, riducendo ulteriormente i margini per le imprese americane.
Un’analisi del Budget Lab della Yale University conferma che “i produttori esteri non stanno assorbendo in modo significativo, se non per nulla, i dazi USA”, ribadendo quanto già emerso in ricerche economiche precedenti. In sintesi, la catena dei costi si chiude sul mercato interno: imprese e consumatori americani pagano il conto.
Le tariffe medie sulle importazioni sono salite dal 2% a circa il 17%, e il processo di adattamento non è ancora completato. “Non dobbiamo aspettarci un solo scatto dei prezzi, ma un aumento graduale nel tempo”, ha aggiunto Cavallo. Molte imprese stanno cercando di diluire gli incrementi per contenere l’impatto sul consumo, ma l’effetto inflazionistico resta evidente.
Quanto incassano gli USA con i dazi di Trump?
Dietro la retorica, tuttavia, si nasconde un costo politico non trascurabile. A sei mesi dall’introduzione delle prime misure, i dazi hanno generato 215 miliardi di dollari di entrate doganali, ma a spese di imprese e famiglie già provate da un’inflazione persistente. La Casa Bianca valuta ora come redistribuire tali fondi: tra le ipotesi, assegni di rimborso ai cittadini, sussidi ai produttori e finanziamenti ai programmi alimentari bloccati dallo shutdown federale.
Gli analisti di Goldman sottolineano che, pur rappresentando un’imposta indiretta, i dazi funzionano come una tassa regressiva: colpiscono proporzionalmente di più i redditi medio-bassi, che spendono la gran parte del proprio reddito in beni importati. L’impatto complessivo, scrivono Peng e Mericle, “potrebbe salire fino al 70% del costo totale se le nuove tariffe venissero estese ai prodotti per la casa e agli arredi”.
A novembre la Corte Suprema esaminerà la legittimità dei dazi imposti ai sensi dell’International Emergency Economic Powers Act del 1977, aprendo un fronte legale che potrebbe ridefinire l’autorità presidenziale in materia commerciale. Nel frattempo, le imprese corrono ai ripari, diversificando le filiere e accelerando l’onshoring produttivo, mentre i consumatori americani si preparano a un altro inverno di prezzi in salita.