Negli ultimi trimestri, diverse Big Tech hanno modificato la vita utile dei propri server e apparati di rete, riducendo miliardi di ammortamenti e gonfiando (contabilmente) gli utili. Michael Burry parla di una “bolla nascosta” da 176 miliardi di dollari. Sarà davvero così? In questo articolo e nella videoanalisi allegata, cerchiamo di analizzare la situazione punto per punto.
Big Tech: un cambio contabile passato (quasi) inosservato
Negli ultimi due anni, le principali società tecnologiche americane — da Meta a Microsoft, da Amazon a Oracle — hanno rivisto le stime contabili sulla durata dei propri asset fisici, in particolare server e infrastrutture di rete. Un dettaglio apparentemente tecnico, ma dalle conseguenze enormi: aumentando la “vita utile” dei beni, si riduce l’ammortamento annuo e si aumenta automaticamente l’utile operativo.
In altre parole, lo stesso server che prima veniva ammortizzato in 3 o 4 anni, oggi viene spalmato su 6. E quel semplice spostamento di numeri permette di mostrare bilanci più solidi e margini più elevati, senza che cambi nulla nei flussi di cassa reali.
I casi concreti: da Meta ad Amazon
Nei documenti ufficiali (10-K e 10-Q) le modifiche sono dichiarate apertamente. Ecco alcuni esempi significativi:
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Meta Platforms: a gennaio 2025 ha aumentato la vita utile dei server e di parte delle reti a 5,5 anni, riducendo gli ammortamenti del 2025 di circa 2,9 miliardi di dollari;
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Amazon: dal 2024 ha portato la durata dei server da 5 a 6 anni, stimando un impatto positivo sull’utile operativo di 3,1 miliardi;
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Oracle: nel primo trimestre dell’anno fiscale 2025 ha esteso la vita utile dei server e dei sistemi di rete da 5 a 6 anni, con un beneficio contabile di 733 milioni di dollari sui costi operativi e 573 milioni sull’utile netto;
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Microsoft: già nel 2023 aveva portato la vita utile di server e rete da 4 a 6 anni, spiegando nei bilanci che la modifica aveva ridotto sensibilmente le spese di ammortamento;
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Alphabet (Google): nel 2023 ha introdotto un’estensione analoga, parlando esplicitamente di un “effetto favorevole sui risultati dell’esercizio”;
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Intel, pur non essendo un hyperscaler, ha aumentato la vita utile di parte dei macchinari produttivi da 5 a 8 anni, riducendo l’ammortamento del 2023 di 4,2 miliardi.
Nel complesso, parliamo di decine di miliardi di dollari in ammortamenti “risparmiati” solo nel 2024, e di centinaia di miliardi stimati da qui al 2028. Apple, Meta, Microsoft e NVIDIA sono i quattro sottostanti di un certificato Multi Cash Collect con Barriera di Vontobel caratterizzato dal codice ISIN DE000VH8GP52.
La denuncia di Michael Burry
Il celebre investitore, noto per la sua scommessa contro i mutui subprime nel 2008, ha pubblicato un post in cui denuncia una presunta sottostima sistematica degli ammortamenti da parte delle Big Tech.
Secondo Burry, la corsa all’AI ha spinto molte aziende a “ritoccare” la durata utile dei server per mostrare utili più elevati, ma la realtà è che il ciclo di vita dell’hardware AI è molto più breve — in media 2 o 3 anni.
La conseguenza, spiega Burry, è un “effetto ottico”: utili gonfiati oggi, a fronte di possibili svalutazioni future. La sua stima è drastica: circa 176 miliardi di dollari di ammortamenti non registrati tra il 2026 e il 2028. Tra le aziende più esposte cita Oracle e Meta, con un potenziale impatto rispettivamente del +26,9% e +20,8% sugli utili “dichiarati” rispetto a quelli reali.
Cos’è l’ammortamento (e perché conta così tanto)
L’ammortamento rappresenta la ripartizione nel tempo del costo di un bene durevole. Quando un’azienda acquista un server da 1 miliardo di dollari, non contabilizza tutto il costo subito, ma lo distribuisce su più anni — in base alla vita utile stimata. Se quella vita utile passa da 3 a 6 anni, l’ammortamento annuale si dimezza e l’utile sale.
Dal punto di vista della cassa non cambia nulla: il denaro è già stato speso. Ma dal punto di vista contabile, il conto economico appare molto più “leggero”, e quindi più redditizio.
Il rischio del “mismatch” tra vita reale e vita contabile
Finché la stima è coerente con la realtà, il sistema funziona. Il problema nasce quando la durata reale dei server — spesso 2-3 anni nel caso dei chip per intelligenza artificiale — è molto più breve di quella riportata a bilancio (5-6 anni). In questo caso, l’azienda rischia di sovrastimare il valore dei propri asset.
Quando ciò accade, deve intervenire con una svalutazione, o come si dice in inglese, un impairment.
Significa riconoscere che un bene iscritto a bilancio non vale più quanto indicato. Esempio: se un data center valutato 10 miliardi “vale” in realtà solo 6, l’azienda deve registrare una perdita da 4 miliardi nel conto economico, un colpo diretto sugli utili.
Perché le aziende dicono che è legittimo
Dal punto di vista contabile, gli standard US GAAP e IFRS permettono di modificare la vita utile degli asset quando ci sono nuove evidenze. E in effetti, molte aziende sostengono che i loro server durano di più rispetto al passato, grazie a miglioramenti tecnologici, software di gestione, riutilizzo per compiti meno intensivi o possibilità di aggiornamento modulare.
In alcuni casi, come Amazon, si è visto anche il processo inverso: una parte dell’infrastruttura di rete è tornata da 6 a 5 anni, segno che le stime possono essere corrette in entrambe le direzioni.
Cosa potrebbe andare storto
Il rischio più grande è che il mercato dell’AI si sviluppi più lentamente del previsto, o che il ciclo dell’hardware resti rapido come oggi. In questo scenario, le aziende dovrebbero anticipare svalutazioni, ridurre gli utili e rivedere le guidance.
Non solo: un’improvvisa revisione al ribasso delle vite utili potrebbe far aumentare drasticamente gli ammortamenti, erodendo i margini e mettendo pressione sulle valutazioni.
È questo il senso dell’avvertimento di Burry quando scrive “it gets worse”: non parla solo di contabilità, ma di rischi reali per gli utili futuri delle Big Tech.
Una questione di fiducia più che di numeri
Allungare la vita utile dei server non è una frode, ma una scelta gestionale. Il problema è capire se quella scelta riflette davvero la realtà operativa o serve solo a migliorare i conti nel breve periodo. Finché la crescita dell’AI giustificherà i livelli di CAPEX e l’utilizzo dei data center resterà alto, la mossa sarà sostenibile. Ma se la domanda rallenta o il ciclo tecnologico accelera, il conto arriverà - e sarà salato.
Il punto non è solo contabile: è macroeconomico e di fiducia. Il boom dell’intelligenza artificiale ha spinto le aziende a investire cifre record in infrastrutture, ma se la redditività reale non segue, anche una semplice stima contabile può trasformarsi in una bomba a orologeria. Oggi i numeri sembrano perfetti, ma basterà un rallentamento del settore per scoprire quanto siano solidi quei margini.
E forse, come nel 2008, Michael Burry ha solo deciso di guardare il bilancio da una prospettiva che gli altri preferiscono ignorare. Lo stesso Burry ha avvisato che il 25 novembre rilascerà degli aggiornamenti in merito a questa questione. Quindi vi terremo sicuramente aggiornati.