L’entrata in vigore, oggi 7 agosto, del nuovo pacchetto di dazi statunitensi – compresi tra il 10 e il 41% in base al Paese – segna la fine della tregua commerciale e l’inizio di una “nuova normalità” fatta di barriere più alte e di incentivi alla produzione domestica. Nello stesso giorno la Casa Bianca ha introdotto un’imposta del 100% su tutti i chip importati, lasciando però una porta aperta: le aziende che programmeranno di costruire impianti negli Stati Uniti potranno beneficiare di esenzioni. Ed è qui che entra in gioco Apple con un accordo storico.
Accordo storico con Apple
È proprio in questo contesto che si inserisce l’annuncio congiunto di Donald Trump e Tim Cook: Apple investirà altri 100 miliardi di dollari negli Stati Uniti, portando a 600 miliardi il piano quadriennale di spesa sul suolo americano. L’accordo include il “New American Manufacturing Program”, che prevede – tra le altre cose – la produzione di tutto il vetro dei dispositivi Apple nello stabilimento Corning di Harrodsburg (Kentucky) e l’assunzione di 20 mila persone altamente specializzate in ricerca, progettazione di silicio e intelligenza artificiale.
La strategia dell'azienda di Cupertino risponde a due obiettivi: mitigare il rischio dazi e consolidare il controllo verticale della supply-chain. Grazie al maxi-investimento, Apple spera di ottenere trattamenti di favore (o perlomeno di evitare i dazi più pesanti) su componenti strategiche come i chip, oggi prodotti in larga parte in Asia. Il mercato ha apprezzato: il titolo AAPL è balzato di oltre il 5% in poche ore, mentre il partner Corning ha guadagnato il 4,4% nell’after-hours.
Effetti a cascata sul settore dei semiconduttori
La mossa di Washington rovescia gli incentivi tradizionali del settore. Se l’imposta del 100% rimanesse in vigore, i produttori esteri vedrebbero eroso in pochi mesi il vantaggio di costo, mentre chi ha (o avvierà) capacità negli USA – Intel, Texas Instruments, ma anche TSMC a Phoenix – godrebbe di un premio competitivo immediato.
Secondo UBS, l’impatto sugli utili dell’industria, se i dazi venissero applicati su chip integrati in hardware finito (smartphone, server, auto), sarebbe "gestibile", nell’ordine di 3-4 punti percentuali. Tuttavia le aziende che resteranno fuori dal perimetro “Made in USA” rischierebbero margini ancora più sottili o l’esclusione dai contratti con i grandi committenti americani.
Riallocazione degli investimenti in USA
L’accordo con Apple accelera un trend già in atto: la riallocazione degli investimenti verso impianti vicini al mercato finale. Nel breve termine le catene logistiche dovranno gestire rincari e colli di bottiglia; nel medio, gli incentivi federali (CHIPS Act) e le esenzioni tariffarie per chi produce in loco potrebbero far nascere un vero ecosistema domestico dei semiconduttori, spingendo anche i fornitori asiatici a costruire “fab” statunitensi per restare nella catena di approvvigionamento.
Insomma, chi vuole vendere chip (o dispositivi che li contengono) negli Stati Uniti dovrà produrre – almeno in parte – all’interno dei confini federali. L’accordo sancisce inoltre il ritorno delle big tech al ruolo di policy-maker industriali: se Cupertino mette un piede nei wafer, l’intero comparto dovrà adeguarsi, ridefinendo mappe produttive, margini e gerarchie. Restano incognite – dalla risposta di Cina ed Europa ai ricorsi giudiziari contro l’uso estensivo dell’International Emergency Economic Powers Act – ma il messaggio è chiaro: il baricentro dei semiconduttori si sta spostando e con esso le opportunità (e i rischi) per investitori e operatori del settore.