Il tema dei dazi imposti dall’amministrazione Trump è in questo momento al centro di aspre discussioni, sia tra gli addetti ai lavori sia tra investitori e non. La retorica ufficiale parla di un grande piano per rilanciare la manifattura americana, riportando negli Stati Uniti aziende e produzioni delocalizzate all’estero.
Ma quanto è realistica questa visione? Analizzando i dati concreti e osservando con freddezza i fatti, si scopre una realtà ben diversa. I dazi si stanno rivelando più una strategia negoziale, se non addirittura una vera e propria farsa, che un’effettiva politica industriale sostenibile.
Dazi Trump: il caos sui mercati
Già nei giorni scorsi, le Borse mondiali hanno dato segnali inequivocabili: il caos innescato dai dazi americani ha provocato forti scosse sui mercati finanziari internazionali. Gli indici stanno crollando in tutto il mondo, lo possiamo vedere sul Forecaster e ce lo racconta anche l'AI Agent, riflettendo la crescente incertezza generata da queste politiche protezionistiche. L’elemento chiave da sottolineare è che questo terremoto finanziario non è un effetto collaterale inatteso, bensì una conseguenza diretta delle scelte di Donald Trump.
In molti si interrogano, e noi ce lo siamo chiesti proprio ieri (Trump è pazzo? Vuole davvero sfasciare l'economia?), se il presidente americano stia agendo con razionalità o se stia portando avanti una strategia al limite del paradossale. La domanda che aleggia è: Trump crede davvero in questa politica oppure si tratta di un’abile mossa per ottenere vantaggi negoziali?
La promessa: riportare le aziende in patria
Il messaggio lanciato da Trump è chiaro: incentivare le imprese a rientrare negli Stati Uniti. In altre parole, fare in modo che la produzione, oggi largamente delocalizzata, venga riportata sul suolo americano, creando nuovi posti di lavoro e stimolando l’economia interna. Ma è davvero possibile? Analizziamo il caso emblematico per eccellenza: l’iPhone, simbolo del design e dell’industria americana.
Attualmente, l’iPhone è assemblato da Foxconn, una multinazionale taiwanese che, a sua volta, ha spostato la produzione in Cina per beneficiare di costi di manodopera molto più bassi. Il costo orario medio di un assemblatore di iPhone in Cina è di circa 10 dollari. Confrontiamolo con il costo del lavoro negli Stati Uniti: un operaio americano, in media, costa all’azienda ben 47 dollari l’ora. Stiamo parlando di quasi cinque volte tanto.
Il semplice dato della manodopera già basta per comprendere l’enorme divario. Spostare la produzione negli Stati Uniti significherebbe aumentare i costi di assemblaggio in modo insostenibile, incidendo pesantemente sui margini di profitto di Apple e di tutte le aziende che seguono lo stesso modello industriale.
Ma non è solo questione di salari. La catena di montaggio dell’iPhone è il risultato di una logistica globale complessa, costruita in anni di ottimizzazioni e accordi internazionali. Non basta voler spostare la produzione in patria: servirebbero anni per ricostruire negli Stati Uniti un’analoga rete di fornitori, stabilimenti, competenze e infrastrutture. Ci vorrebbero tempi lunghi e costi enormi per riadattare l’intera filiera.
Il nodo della disoccupazione e il paradosso dell'immigrazione
C'è un ulteriore aspetto critico che smonta la narrativa di Trump: la disponibilità effettiva di lavoratori. Consultando dati aggiornati da fonti affidabili come Trading Economics, vediamo che a marzo 2025 il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti era al 4,2%.
In una grande economia avanzata come quella americana, questa cifra è considerata fisiologica, praticamente il livello minimo che si possa mantenere in condizioni normali. Su 100 persone, solo quattro sono disoccupate. Questo significa che, anche se le fabbriche tornassero a essere costruite in patria, non ci sarebbe sufficiente manodopera per mandarle avanti.
A rendere il quadro ancora più paradossale c'è un ulteriore dettaglio. Gli Stati Uniti, per sopperire alla carenza di manodopera, avrebbero bisogno di un flusso continuo di lavoratori immigrati provenienti da Paesi più poveri, come ad esempio il Messico. Eppure, l’amministrazione Trump ha adottato una linea durissima proprio contro l’immigrazione, rimpatriando lavoratori stranieri invece di integrarli nel mercato del lavoro americano.
Questo atteggiamento contraddittorio rafforza l’ipotesi che i dazi non siano altro che uno strumento negoziale, piuttosto che una reale politica di rilancio industriale.
I dazi? Una strategia di pressione internazionale
Analizzando la situazione con lucidità, è evidente che il vero obiettivo di Trump non è riportare fisicamente le fabbriche in patria, bensì ottenere condizioni commerciali più vantaggiose per gli Stati Uniti nei negoziati con le altre potenze economiche mondiali.
Gli Stati Uniti restano, a oggi, il più grande cliente del mondo. Nessun altro Paese spende tanto all’estero quanto gli Stati Uniti. Questo conferisce a Washington una posizione di forza nei confronti degli altri governi, Europa inclusa.
L’Europa, e l’Italia in particolare, si sono rese negli anni fortemente dipendenti dalle esportazioni verso il mercato americano. Trascurando la crescita della domanda interna, molti settori industriali europei hanno puntato tutto o comunque tanto sull’export, rendendosi vulnerabili alle politiche commerciali statunitensi.
Per questo motivo, quando gli Stati Uniti minacciano dazi, gli altri Paesi hanno poco margine di manovra. Non possono permettersi di perdere l’accesso al più grande mercato globale.
Un bluff ben studiato?
Tirando le somme, appare sempre più evidente che la politica dei dazi di Trump sia un bluff strategico, finalizzato a rinegoziare accordi commerciali più favorevoli. È probabile che, già nelle prossime settimane, molte delle tensioni innescate si risolvano attraverso intese bilaterali, che consentiranno agli Stati Uniti di spuntare condizioni più vantaggiose, senza però obbligare le aziende a rientrare con la produzione in patria.
Nel frattempo, è importante sottolineare che tutto questo caos sui mercati, se letto con attenzione, sta anche generando delle interessanti opportunità di investimento. Come sempre accade in fasi di forte volatilità, chi è in grado di analizzare con lucidità il contesto può individuare occasioni profittevoli.
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