Petrolio: le entrate dell'Arabia Saudita crollano, cosa significa? | Investire.biz

Petrolio: le entrate dell'Arabia Saudita crollano, cosa significa?

25 ott 2024 - 07:00

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L'andamento del prezzo del petrolio sta mettendo in difficoltà l'Arabia Saudita: le entrate sono scivolate al minimo da oltre tre anni. Ecco cosa comporta

L'Arabia Saudita ha visto un crollo delle entrate dalle esportazioni di petrolio nel mese di agosto. Secondo quanto riportato dall'Agenzia statale di statistica, la vendita di greggio ha generato introiti per 17,4 miliardi di dollari, registrando un crollo del 6% su base mensile e soprattutto segnando il livello più basso da giugno 2021.
 
Il motivo principale è da attribuire al calo del prezzo dovuto soprattutto a un rallentamento della domanda cinese. La riduzione dell'offerta stabilita dall'OPEC+ per cercare di tenere alto il prezzo del combustibile, ha finito per ridurre i potenziali guadagni di ciascuno.
 
Questo è ancora più vero se si pensa che contestualmente gli Stati Uniti - primo produttore mondiale - hanno incrementato le forniture e quindi hanno ridotto la quota di mercato dei vari esportatori. A dicembre l'OPEC+ dovrebbe aumentare l'offerta, ma ancora la decisione non è definitiva in quanto c'è la possibilità di una proroga dei tagli se le quotazioni dell'oro nero dovessero restare depresse.
 
 

Petrolio: i rischi per l'Arabia Saudita

Le entrate dalla vendita di petrolio sono ancora determinanti per l'economia saudita nonostante, secondo i piani del principe ereditario Mohammed Bin Salman, Riyadh stia cercando di diversificare le fonti di reddito in prospettiva dell'abbandono dei combustibili fossili e del passaggio alle energie rinnovabili. Al riguardo, l'Arabia Saudita ha effettuato negli ultimi anni enormi investimenti in svariati settori: dalle infrastrutture ai trasporti, all'intrattenimento, allo sport e alla tecnologia. Tuttavia, per finanziare la continuazione del business in questi campi ha bisogno degli introiti derivanti dalla sua attività principale: il petrolio.
 
In questo contesto, due fattori possono venire in soccorso e allo stesso tempo risultare letali. Il primo è la ripresa della domanda della Cina, ancora il principale consumatore al mondo di petrolio. I piani di stimolo delle autorità di Pechino messi in campo a partire dalla fine dello scorso settembre possono rappresentare una speranza alla quale restare aggrappati, ma c'è ancora molta incertezza sul fatto che riusciranno a sollevare un'economia colpita da un crollo dei consumi e dalla crisi del settore immobiliare. Se i piani del Dragone non dovessero funzionare e la domanda cinese non dovesse risvegliarsi, è probabile che i prezzi del petrolio rimarranno contratti.
 
Il secondo fattore è la guerra in Medio Oriente. Fin quando durano le tensioni in quell'area, con il rischio di un'escalation che riduca l'offerta di un Paese come l'Iran, le quotazioni del greggio probabilmente si manterranno a buoni livelli. Ma cosa succederebbe se si arrivasse alla pace? A quel punto l'impatto sui prezzi potrebbe essere pesante, con la possibilità di discese nel breve termine anche importanti.
 
Al momento spiragli di tregua se ne vedono pochi e anzi si teme un inasprimento, specialmente se la reazione di Israele all'attacco iraniano di alcune settimane fa dovesse risultare particolarmente aggressiva. Tuttavia, ogni ipotesi deve essere tenuta in debita considerazione in contesti di questa portata.
 
 
 

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