Donald Trump, Fed e democrazia: il conto salato per l’economia USA | Investire.biz

Donald Trump, Fed e democrazia: il conto salato per l’economia USA

27 dic 2025 - 09:00

La deriva populista apre una nuova fase di rischio sistemico per l’Economia USA, in cui politica, istituzioni e mercati finanziari tornano a intrecciarsi

“La Fed non è un’agenzia ordinaria” osserva Raphael Olszyna-Marzys, International Economist di J. Safra Sarasin, ricordando come ogni scelta della Banca centrale americana riverberi sull’intero sistema finanziario globale. Attaccarne l’indipendenza significa quindi mettere mano a uno dei pilastri su cui si regge la credibilità dell’economia USA, con il rischio di amplificare volatilità, premi per il rischio e incertezza sulle traiettorie di inflazione e crescita.

Secondo la definizione consolidata nelle scienze politiche, evidenzia Olszyna-Marzys, il populismo è una strategia che oppone un “popolo” moralmente virtuoso a una “élite” descritta come corrotta, delegittimando il compromesso e dipingendolo come tradimento. In questo schema, i leader populisti rivendicano un mandato esclusivo a parlare “a nome del popolo”, indebolendo progressivamente pesi e contrappesi, rafforzando la discrezionalità dell’esecutivo e mettendo sotto pressione lo Stato di diritto.

Gli indici sulla qualità della democrazia segnalano, emerge dallo studio, che gli Stati Uniti non fanno eccezione a questa dinamica. L’Indice di Democrazia Liberale (LDI) elaborato da V‑Dem, che misura tanto la dimensione elettorale quanto quella liberale della democrazia, mostra un deterioramento a partire dalla crisi finanziaria globale, un’accelerazione negativa durante il primo mandato di Donald Trump e solo un parziale recupero negli anni di Joe Biden. Il Rule of Law Index del World Justice Project, che valuta il rispetto dello Stato di diritto lungo otto direttrici - dai limiti ai poteri del governo all’assenza di corruzione, dai diritti fondamentali all’efficacia della giustizia civile e penale - ricalca un andamento molto simile e non offre segnali convincenti di inversione.

In questo contesto, Trump ha impostato la sua campagna promettendo di perseguire gli avversari politici, intimidire la stampa e ricorrere anche all’uso delle forze armate contro i manifestanti, trasformando il conflitto istituzionale in una parte integrale della proposta politica. Con una macchina amministrativa oggi più strutturata e un programma dettagliato - il cosiddetto “Progetto 2025” della Heritage Foundation - l’attuale Casa Bianca appare determinata a tradurre quell’agenda in azione di governo, accelerando la pressione su istituzioni e corpi intermedi dell’economia USA.

 

L’offensiva populista e il costo per l’economia USA

L’impressione, sottolinea Olszyna-Marzys, è quella di un’offensiva su più fronti contro l’architettura istituzionale americana, con implicazioni profonde per l’economia USA. L’amministrazione ha tentato di espandere i poteri dell’esecutivo, ridurre la capacità del Congresso di vigilare sulle finanze pubbliche, indebolire le agenzie indipendenti e predisporre strumenti per licenziare decine di migliaia di dipendenti federali attraverso un organismo - il cosiddetto DOGE - che non risponde ai consueti meccanismi di accountability democratica.

Ancora più insidioso è l’effetto di intimidazione indiretta: rettori universitari, top manager, redazioni e amministratori locali modulano il proprio comportamento per evitare di trovarsi nel mirino del potere politico. Come ricorda Steven Levitsky di Harvard, quando il dissenso diventa anzitutto un problema di gestione del rischio personale e reputazionale, la democrazia liberale entra in una fase di fragilità strutturale. A questo si affianca un nazionalismo economico fatto di dazi, restrizioni migratorie e retorica anti‑globalizzazione, che si traduce in un contesto meno prevedibile per investitori, imprese e capitali internazionali.

La letteratura economica documenta in modo crescente il prezzo di queste dinamiche. Un ampio studio di Funke, Schularick e Trebesch mostra che, a distanza di quindici anni, i governi populisti lasciano un PIL inferiore di circa il 10% rispetto allo scenario controfattuale, un gap che si costruisce nel tempo attraverso protezionismo, lassismo fiscale e interferenze sulla politica monetaria.

Il risultato è un mix di debito pubblico più elevato, inflazione più alta, produttività più debole e maggiore volatilità macroeconomica, un quadro poco compatibile con la stabilità che l’economia USA ha offerto per decenni agli investitori globali.

Un altro lavoro, firmato da Magistro e Menaldo, evidenzia come la crescita reale pro capite tenda a indebolirsi per oltre un decennio quando i populisti controllano sia l’esecutivo sia il legislativo. Gli autori attribuiscono questo risultato a forme di redistribuzione opache, spesso fuori bilancio, finanziate tramite repressione finanziaria: un meccanismo che distorce l’intermediazione del credito, frena l’investimento privato e, al tempo stesso, consente ai governi di espandere la spesa corrente a scapito di infrastrutture, ricerca di base e innovazione.

Il lavoro di Funke, Schularick e Trebesch suggerisce inoltre che, una volta erose le norme democratiche, il populismo possa trasformarsi in un equilibrio auto‑rinforzante, in cui instabilità politica e performance economiche deludenti si alimentano reciprocamente. I leader populisti usano il potere per influenzare elezioni, sistemi giudiziari e media, prolungando la propria permanenza al vertice, come dimostrano le esperienze di lunga durata in Ungheria sotto Orban e in Turchia sotto Erdogan.

 

 

Fed, democrazia e rischio per gli investitori

In questo scenario, lo scontro sulla rimozione della governatrice Cook e il recente pronunciamento della Corte Suprema vanno letti come molto più di un tecnicismo sulla governance della Federal Reserve. Si tratta di un test cruciale sulla capacità delle istituzioni americane di opporsi a una presidenza sempre più assertiva e di preservare uno spazio di autonomia per la politica monetaria - un elemento chiave per la prevedibilità dell’economia USA e, per estensione, dei mercati globali.

Le tendenze di fondo - polarizzazione politica, progressiva erosione istituzionale e affermazione di un’economia sempre più segnata da impulsi populisti - indicano che il contesto resterà complesso anche al di là dei singoli episodi. Per l’investitore di lungo periodo, la domanda centrale non è tanto l’esito di questa specifica contesa tra Casa Bianca, Fed e Corte Suprema, quanto la resilienza complessiva del sistema americano di fronte a un attacco prolungato alla sua infrastruttura democratica.

Come sintetizza Olszyna-Marzys, ciò che è davvero in gioco è se gli Stati Uniti sapranno continuare a offrire quell’ancora di stabilità istituzionale che, per decenni, ha reso l’economia USA il fulcro indiscusso della finanza globale.

 

 

 

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