Negli ultimi giorni le immagini che circolano sui notiziari e sui social parlano chiaro: tra Iran e Israele è in corso un’escalation militare preoccupante. Missili, droni, minacce reciproche: un conflitto che sembra ormai essersi trasformato in una vera e propria guerra. Ma mentre l’attenzione si concentra sui fronti armati e sulle dichiarazioni ufficiali, la domanda che sorge spontanea è: perché Israele e Iran si stanno bombardando a vicenda, nonostante siano due Paesi geograficamente distanti, separati da Iraq, Siria, Arabia Saudita e da un mare di interessi?
Per comprendere il quadro nel suo complesso, bisogna andare oltre la superficie e analizzare ciò che spesso si tende a tralasciare: gli interessi economici e strategici che muovono le grandi potenze. E in questo scenario, ancora una volta, gli Stati Uniti giocano un ruolo centrale.
Il ruolo degli Stati Uniti
Un’intervista recente del senatore statunitense Ted Cruz, rilasciata al giornalista americano Tucker Carlson, ha offerto uno spunto rivelatore. Alla domanda se gli Stati Uniti stessero partecipando attivamente agli attacchi contro l’Iran, Cruz ha risposto con una frase che ha fatto il giro del mondo: “Israel is leading, but we are supporting them”. Israele è in prima linea, ma il sostegno americano è concreto. Una dichiarazione che ha imbarazzato lo stesso governo americano, che fino a quel momento aveva negato qualsiasi coinvolgimento diretto.
Dopo aver ricoperto il ruolo del palo durante una rapina, nella notte tra sabato 21 e domenica 22 giugno gli Stati Uniti hanno lanciato un attacco militare diretto contro l'Iran, prendendo di mira tre importanti siti nucleari del paese: Fordow, Natanz ed Esfahan. L'operazione, denominata "Midnight Hammer" (Martello di Mezzanotte), ha visto l'impiego di bombardieri strategici B-2 che hanno sganciato bombe ad alta penetrazione ("bunker buster") con l'obiettivo di danneggiare in modo significativo il programma nucleare iraniano.
L'amministrazione americana ha confermato l'attacco, descrivendolo come un'azione decisa per impedire a Teheran di dotarsi di armi nucleari. Fonti del Pentagono hanno parlato di un'"operazione di successo" che avrebbe "riportato indietro di anni" le capacità nucleari iraniane. Il Presidente degli Stati Uniti ha rivendicato la decisione, affermando che l'azione è stata intrapresa per garantire la sicurezza regionale e globale.
La notizia ha immediatamente innalzato il livello di allerta in tutto il Medio Oriente e ha suscitato reazioni a livello internazionale. L'Iran ha condannato duramente l'attacco, definendolo una "palese violazione del diritto internazionale" e una "dichiarazione di guerra". Teheran ha minacciato "conseguenze durature" e ritorsioni, affermando che ogni base americana nella regione è ora da considerarsi un "obiettivo legittimo".
Il vero nodo: la Nuova Via della Seta
Per comprendere cosa spinge realmente Washington a supportare Israele in un’offensiva contro Teheran, bisogna guardare a Est. Il vero obiettivo non è l’Iran in sé, ma la Cina. E in particolare, il suo ambizioso progetto della Nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative), una rete globale di collegamenti ferroviari, portuali e commerciali che mira a connettere la Cina con Europa, Africa e Medio Oriente, ridisegnando i flussi del commercio mondiale.
Su questa rotta strategica, l’Iran occupa una posizione chiave. Non solo perché è geograficamente al centro del corridoio terrestre tra Oriente e Occidente, ma anche perché è uno dei pochi paesi dell’area con accesso diretto sia al Mar Caspio che al Golfo Persico. A dimostrazione di quanto l’Iran sia diventato un nodo cruciale del progetto cinese, il 25 maggio è stato registrato un evento passato quasi inosservato: il primo treno merci della Nuova Via della Seta è arrivato al dry port di Aprin, a pochi chilometri dalla capitale iraniana Teheran.
Non è un caso, dunque, che l’Iran sia diventato improvvisamente l’obiettivo di pressioni e attacchi. Dal punto di vista degli Stati Uniti, un Iran stabile e in sintonia con la Cina rappresenta una minaccia strategica al loro predominio economico globale. Da qui la volontà, più o meno esplicita, di destabilizzare il Paese, indebolirlo, isolarlo politicamente e, se possibile, impedirgli di fungere da snodo commerciale tra Oriente e Occidente.
Fonte: startmag.it
La scusa nucleare e l’interesse reale
La narrativa ufficiale americana, come spesso accaduto in passato, si appoggia su un tema altamente sensibile: il programma nucleare iraniano. L’Iran, secondo Washington e Tel Aviv, starebbe sviluppando armi atomiche, violando trattati e minacciando la sicurezza regionale. Ma il tempismo degli attacchi, la connessione con l’arrivo del primo treno cinese e la centralità strategica dell’Iran nella nuova geopolitica eurasiatica fanno pensare che la questione nucleare sia più un pretesto che una reale urgenza.
Insomma, l'Iran non viene bombardato solo perché potenzialmente pericoloso sul piano militare, ma perché economicamente utile a un progetto che mina il controllo americano sui traffici globali. Non è la bomba atomica il vero problema, ma la ferrovia.
Le vittime invisibili del grande gioco
Mentre le superpotenze si sfidano a colpi di sanzioni, droni e diplomazia armata, il prezzo più alto lo pagano come sempre i civili. Gli attacchi tra Israele e Iran, l’intensificarsi del conflitto, le ritorsioni e le escalation hanno già causato vittime. E se l’attenzione del mondo si concentra su questo nuovo fronte, rischia di passare in secondo piano ciò che sta accadendo a Gaza, dove centinaia di civili, tra cui donne e bambini, continuano a morire sotto i bombardamenti israeliani.
È una dinamica crudele ma tristemente ricorrente: i conflitti tra stati potenti diventano il palcoscenico dove a morire sono sempre i più deboli. E le guerre, da almeno un secolo, sembrano ruotare sempre attorno agli stessi centri di potere: interessi economici, controllo delle rotte commerciali, dominio energetico.
Una domanda per il futuro
La sensazione di impotenza, di fronte a queste dinamiche, è forte. Eppure, ogni cittadino ha almeno il dovere di interrogarsi, di informarsi, di non fermarsi alla superficie. Perché tra 30 o 40 anni, quando la storia di questi giorni verrà scritta nei libri, i nostri figli potrebbero chiederci: “Dove eravate mentre si consumava un genocidio? Dove guardavate, mentre il mondo andava in fiamme per i soldi?”
Domande scomode, ma necessarie. Perché capire la geopolitica oggi, significa avere almeno una possibilità di costruire un futuro più consapevole domani.
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