In ogni bolla che nella storia si è creata sui mercati finanziari, c'è quasi sempre stata almeno una piccola componente di frode. Quantomeno, qualcuno ha approfittato dell'euforia del momento per proporre cose che sapeva benissimo che in fondo non avevano un grande valore. Nel diciottesimo secolo andò in scena la Bolla dei mari del Sud, una sorta di follia di massa di cui trovare una logica di fondo per spiegarne la dinamica diventa un esercizio assai complicato. La storia illustra come una frode possa rendere le persone ingorde ancora più desiderose di separarsi dal proprio denaro.
Bolla dei Mari del Sud: genesi e sviluppo
Siamo in Inghilterra all'inizio del '700 e, come spesso accade, la febbre degli investimenti era accompagnata da un periodo di prosperità prolungato.
Nel 1711 fu fondata la Compagnia dei Mari del Sud, società di navigazione che si fece carico di debiti governativi per 10 milioni di sterline in cambio del monopolio di tutti i traffici nei Mari del Sud. L'idea attrasse gli investitori, che videro la possibilità di guadagnare molto acquistando le azioni della compagnia visto il fiorire in quel periodo degli scambi commerciali. Tutti quelli che avevano acquistato titoli di Stato garantiti dalla compagnia non esitarono un attimo a scambiarli al valore nominale con le azioni della stessa.
In un clima di ottimismo generale, la società si offrì nel 1720 di capitalizzare l'intero debito pubblico inglese, che valeva circa 31 milioni di sterline. Il Parlamento a quel punto elaborò un disegno di legge per rendere operativa la decisione. Il pubblico degli investitori interpretò tutta la situazione in maniera estremamente positiva, in quanto riteneva che il management della compagnia avesse le idee molto chiare.
Il valore delle azioni aumentò di circa 1,5 volte in poco tempo e il 12 aprile 1720, cinque giorni dopo l'approvazione della legge, la società fece una nuova emissione di azioni al prezzo di 300 sterline l'una. L'aspetto interessante era che i titoli potevano essere acquistati fino a otto rate, pagando una quota iniziale di 60 sterline. Il successo fu enorme e financo il Re non resistette alla tentazione di comprare azioni, così investì 100 mila sterline.
Nell'euforia generale, la compagnia decise di fare una nuova sottoscrizione, collocando azioni a un prezzo stavolta di 400 sterline. Non c'era però più limite e le quotazioni in Borsa salirono a 550 sterline nell'arco di un mese. Al che il 15 giugno di quell'anno fu decisa una terza emissione, addirittura con un piano di pagamento più favorevole. In sostanza, il pagamento immediato era solo del 10% e il resto a rate, con le prime che sarebbero andate in scadenza solo l'anno successivo. Le azioni trovarono un nuovo slancio e si proiettarono fino a 800 sterline. La febbre aveva ormai contagiato tutti. Metà del parlamento inglese aveva acquistato azioni, che superarono in breve tempo la soglia delle 1.000 sterline.
La frenesia generale si allargò anche ad altre realtà, portando alla creazione di società dalle idee più stravaganti. In quel periodo venne addirittura formata un'azienda che si proponeva di importare una grande quantità di asini dalla Spagna, sebbene in Inghilterra ce ne fossero in abbondanza. Un'altra società aveva come attività quella di purificare l'acqua salata per renderla potabile. Per non parlare di aziende che progettavano navi per la caccia ai pirati, o che promuovevano allevamenti di cavalli in Inghilterra, o ancora che commerciavano capelli umani, edificavano ospedali per i figli illegittimi, volevano estrarre argento dal piombo o produrre una ruota con moto perpetuo.
Centinaia di progetti assurdi e spesso fraudolenti, con Consigli di amministrazione inventati di sana pianta, promettevano rapidi ed enormi guadagni e fecero breccia in quel clima di stordimento generale in cui gli investitori compravano di tutto.
Il grande crollo
Il crack fu servito ad agosto del 1720, quando iniziò a circolare la notizia che nella Compagnia dei Mari del Sud si era formato un buco enorme e irreparabile. I direttori e i dipendenti della società si resero subito conto che il valore delle azioni era totalmente scollegato dalle reali possibilità economiche della compagnia e vendettero rapidamente le loro azioni. Non appena il pubblico ne venne a conoscenza, si scatenò il panico e il crollo delle azioni fu immediato.
I responsabili del governo cercarono di placare i bollenti spiriti con dichiarazioni votate a ristabilire la fiducia, ma ormai i buoi erano fuggiti dalla stalla. Per un pelo tutto il sistema del debito pubblico non collassò. Fu l'unica cosa che il governo riuscì a portare a casa. Per il resto si raccontò solo di una catastrofe per certi versi annunciata. Bastava osservare il business della compagnia che faceva acqua da tutte le parti per rendersi conto della totale non attinenza del valore reale delle azioni con quanto stava accadendo in Borsa.
Dopo lo scoppio della bolla dei Mari del Sud, il parlamento inglese approvò il Bubble Act, con lo scopo di proteggere il pubblico da ulteriori abusi. La legge proibiva alle compagnie di emettere titoli azionari. Fino al 1825 circolarono poche azioni sul mercato britannico, quando quell'anno si decise di abolire la legge. Il grande insegnamento che lasciò quella bolla può racchiudersi nelle parole di Isaac Newton, uno dei personaggi illustri scottati da quel disastro. "Posso calcolare il moto dei corpi celesti, ma non la follia
della gente", disse lo scienziato.