Nella valutazione di una azione, i teorici della finanza si sono sempre divisi portando avanti due scuole di pensiero molto diverse: l'analisi fondamentale e l'analisi tecnica. Il fondamentalista è interessato al valore reale di un titolo attraverso lo studio dell'azienda che vi sta dietro; il tecnico si concentra sugli aspetti che riguardano il prezzo del titolo e la sua storia, quindi si occupa dello studio minuzioso dei grafici.
Ne consegue che il primo si distacca dagli umori del mercato in ogni momento, cercando di non perdere di vista la differenza tra il valore reale e quello di mercato di ogni azione; l'analista tecnico invece prende in considerazione il sentiment delle folle, molto spesso rappresentato graficamente.
Ancora, il fondamentalista mira a un orizzonte temporale medio lungo, sul presupposto che in periodi estesi tutte le informazioni saranno incorporate nei prezzi delle azioni, i quali dunque finiranno per coincidere con il valore intrinseco; il tecnico coglie le tendenze del momento, cercando di sfruttare gli scostamenti dei prezzi. In questo articolo ci occuperemo dell'analisi fondamentale e di quali sono gli elementi chiave da valutare quando si costruiscono le proprie strategie di portafoglio.
Analisi fondamentale: cosa tenere in considerazione
La teoria dell'analisi fondamentale è conosciuta nel mondo accademico come
teoria delle solide fondamenta, che si contrappone a quella dei
castelli in aria di scuola tecnicista (
Azioni: ecco le due principali teorie sugli investimenti). Tra i principali esponenti troviamo il padre del value investing
Benjamin Graham, che ha prodotto proseliti del calibro di
Warren Buffett. Per stimare il corretto valore di un titolo, il fondamentalista si basa su quattro fattori chiave, come di seguito illustrato.
Tasso di crescita atteso dell'azione
Quanto un'azione può crescere nel tempo è essenziale per valutare la forza dell'investimento. In questo occorre considerare una formula estremamente potente, che Albert Einstein descrisse come la più grande scoperta matematica di sempre. Stiamo parlando dell'interesse composto. La crescita composta comporta che un tasso del 10% annuo di un investimento di 100 dollari significa che dopo 10 anni la somma accumulata non è di 200 dollari, ma di 259,37 dollari. Il motivo è che ogni anno gli interessi vengono reinvestiti e quindi il 10% si applica sul capitale + gli interessi e non solo sul capitale iniziale. Dunque, dopo il primo anno 110 dollari maturati diventano 121 il secondo anno, 133 il terzo e così via.
C'è una regola che viene seguita negli ambienti finanziari per calcolare in quanto tempo è possibile raddoppiare il capitale di partenza. Si tratta della regola del "72". In pratica, basta dividere 72 per il tasso di rendimento e si ottiene il numero di anni necessario per raddoppiare l'investimento. Ad esempio, se il tasso di interesse è del 10%, ci vorranno 7,2 anni affinché il montante raddoppi; se il tasso di interesse è del 15%, basteranno 4,8 anni.
L'interesse composto è molto utile nel caso in cui si fanno investimenti "buy and hold" su indici azionari come l'
S&P 500, che ha un tasso di crescita storico di circa il 12%. L'effetto moltiplicativo è molto potente soprattutto dopo un certo numero di anni, in quanto è molto più consistente la base su cui applicare il tasso di rendimento. Il difetto di tutto ciò sta nel fatto che
per qualsiasi azione il tasso di rendimento è sempre una stima e per questo passibile di errore sulla base di cosa potrà succedere in futuro al mercato e all'azienda.
Pagamento atteso dei dividendi
La quantità di dividendi che si ricevono alla scadenza di ogni investimento è un fattore essenziale per determinare il valore di un'azione. Tendenzialmente, quanto più alto è il pagamento delle cedole tanto più elevato è il valore reale del titolo. Gli investitori prestano molta attenzione alla capacità dell'azienda di remunerare i propri azionisti, ma non è tutto oro quel che luccica. Un payout troppo elevato può essere indice di una elevata considerazione verso la proprietà di una società, ma anche la rinuncia a investire gli utili conseguiti nella crescita aziendale.
Ogni caso andrebbe valutato a sé. Ci sono aziende che sono nella fase di crescita più dinamica e quindi preferiscono non pagare i dividendi o limitarli. Altre, invece, che hanno raggiunto la fase di maturazione e sono più propense a restituire il capitale agli azionisti. La regola da seguire è che di due aziende con lo stesso tasso di crescita, andrebbe considerata maggiormente quella che paga più dividendi.
Il grado di rischio
Tutta l'analisi fondamentale si basa sulla differenza tra il prezzo di mercato e il valore intrinseco di un'azione. Se tale divario è positivo, significa che il titolo è sopravvalutato e quindi bisogna starne lontani. In caso contrario, il mercato non lo sta considerando adeguatamente e quindi si può sfruttare questa forma di inefficienza. Per quanto gli investitori tendano a essere attratti maggiormente dalle blue chip perché la loro dimensione e la loro solidità economica e finanziaria trasmette un senso di sicurezza, non sempre questa è la soluzione migliore. Bisogna sempre rapportare tutto a quanto un titolo è prezzato in quel momento.
Uno dei parametri di cui vanno in soccorso i fondamentalisti è il rapporto price/earnings (P/E), ossia quante volte scambia il prezzo di un'azione rispetto agli utili che è in grado di produrre. Un rapporto più alto rispetto a quelli del mercato, del settore di appartenenza o della media storica del titolo è un campanello di allarme che l'azione su cui si sta investendo è rischiosa. Il livello di P/E varia molto da settore a settore. La tecnologia ha sempre un multiplo più elevato della old economy, in quanto presuppone un tasso di crescita degli utili maggiore.
Livello dei tassi di interesse
Il livello dei tassi di interesse è essenziale nell'analisi fondamentale, per tre ragioni. In primo luogo perché la valutazione del valore intrinseco che si basa sull'attualizzazione dei flussi reddituali futuri dipende dal tasso al quale tali flussi sono attualizzati. In secondo luogo perché soprattutto le società che puntano sulla crescita e finanziano gli investimenti risentono molto dal costo del finanziamento derivante dai tassi di interesse. Infine perché l'entità dei tassi determina quanto sia conveniente detenere azioni rispetto a titoli a reddito fisso.
Su quest'ultimo punto, ad esempio, agli inizi degli anni '80 ci fu un crollo del mercato azionario negli Stati Uniti poiché i tassi di interesse erano saliti al 15% per combattere l'inflazione derivante dal secondo shock petrolifero del 1979. All'epoca gli investitori trovavano molto poco conveniente puntare su asset a rischio quando il ritorno da un investimento più sicuro era elevato. L'esempio porta alla regola generale secondo cui i mercati azionari sono poco in sintonia con tassi elevati e più a loro agio quando i tassi sono bassi.