Si temeva una catastrofe all'apertura della settimana di contrattazioni a Wall Street, con una pioggia di vendite e investitori nel panico. Questo dopo che nella giornata di domenica, gli Stati Uniti hanno lanciato una serie di attacchi militari alle centrali nucleari dell'Iran. Invece, non è accaduto nulla di tutto questo. Anzi, gli indici a stelle e strisce sono apparsi sotto controllo, con gli operatori incuranti delle turbolenze a livello geopolitico che prefigurano uno scenario di guerra i cui sviluppi non sono facili da decifrare.
Una certa volatilità si è registrata nel mercato del petrolio, con le quotazioni del greggio che si sono immediatamente impennate salvo poi ritirarsi durante la giornata annullando tutti i guadagni. Anche l'oro è rimasto stabile, senza rilevare particolari sussulti.
Di solito, di fronte a un quadro così preoccupante, i mercati sono molto più nervosi, almeno nel breve periodo. Stavolta, tuttavia, secondo gli esperti di mercato, è probabile che gli investitori avevano già previsto da tempo l'entrata in guerra degli Usa a fianco di Israele e quindi avevano avviato i meccanismi di copertura. In altri termini, l'escalation del conflitto in Medio Oriente è già incorporata nei prezzi.
Wall Street: bisogna davvero preoccuparsi per la guerra?
Gli strategist di Morgan Stanley hanno osservato che solitamente
le vendite a Wall Street causate da questioni geopolitiche non durano a lungo. "La storia suggerisce che la maggior parte delle vendite guidate dalla geopolitica sono di breve durata/modeste", hanno scritto in una nota. Nei precedenti eventi, infatti, l'indice
S&P 500, dopo una certa volatilità di breve durata, è salito del 2% a un mese, del 3% a tre mesi, e del 9% a 12 mesi, ha sottolineato il team guidato Michael Wilson.
Il principale fattore di ansia è rappresentato dal timore che lo Stretto di Hormuz venga chiuso, come ha minacciato l'Iran in forma di rappresaglia. Il lembo di mare che si trova tra Iran e Oman ospita il transito delle petroliere di Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabia Uniti e ovviamente dei due Stati che lo controllano e hanno la sovranità delle acque. Da quell'arteria passa il 20% del traffico mondiale di petrolio, quindi una chiusura avrebbe delle ripercussioni enormi non soltanto con riferimento al greggio. Attraverso l'aumento dei prezzi del petrolio, infatti, potrebbe scatenarsi nuovamente l'inflazione portando le Banche centrali ad aumentare i tassi di interesse. Questo finirebbe inevitabilmente per ripercuotersi negativamente sul mercato azionario.
"I prezzi del petrolio determineranno se la volatilità è destinata a proseguire", hanno affermato gli esperti di Morgan Stanley. Per Wilson e il suo team, occorrerebbe tuttavia un'impennata davvero significativa per creare uno scenario ribassista. In sostanza, le quotazioni del greggio dovrebbero raggiungere i 120 dollari al barile prima di rappresentare una minaccia per il ciclo economico, hanno sottolineato gli esperti della banca statunitense. "Anche se siamo rispettosi dei rischi, c'è ancora molta strada da fare su questa base", hanno scritto.
Più pessimisti invece sono gli strategist della banca di investimento britannica Panmure Liberum. "Se lo Stretto di Hormuz viene chiuso, ci aspettiamo una grande scossa stagflazionistica simile a quella del 2022", hanno scritto. "In questo caso sembra probabile una correzione del 10%-20% delle azioni e potremmo assistere a un nuovo mercato ribassista se la guerra commerciale si intensificherà di nuovo all'inizio di luglio".