Negli ultimi mesi, le tensioni commerciali tra Cina e Stati Uniti hanno raggiunto nuovi picchi, generando effetti collaterali che si estendono ben oltre le tariffe doganali. Una delle mosse più significative adottate da Pechino è il blocco delle esportazioni di terre rare verso gli Stati Uniti, una decisione che sta creando problemi tangibili a diverse aziende americane, tra cui Tesla.
Il colosso guidato da Elon Musk, infatti, ha dovuto rallentare, secondo il New York Times, la produzione del suo robot umanoide Optimus proprio a causa di questa mossa. Ma cosa si cela dietro questa scelta cinese? Quali sono le conseguenze a breve e lungo termine? E chi rischia di perdere davvero di più in questa guerra silenziosa fatta di minerali strategici?
La guerra dei dazi e le sue ripercussioni
Tutto parte da una più ampia disputa economica tra le due superpotenze. L'amministrazione Trump ha innescato una vera e propria guerra commerciale contro la Cina attraverso l'introduzione di dazi sempre più aggressivi.
In risposta, il governo cinese non solo ha incrementato le proprie tariffe sulle merci statunitensi, ma ha anche cominciato a vendere massicciamente il debito pubblico americano, ovvero le obbligazioni statali, contribuendo così a farne abbassare il prezzo e di conseguenza alzare i rendimenti richiesti dagli investitori per acquistare titoli USA.
Questo significa che, in un contesto di crescente instabilità, il governo americano ora deve pagare di più per finanziarsi. Ma la misura che più preoccupa il mondo dell'industria e della tecnologia è quella legata al blocco delle terre rare.
Terre rare: cosa sono e perché sono strategiche
Le terre rare sono elementi chimici fondamentali per la produzione di dispositivi tecnologici di uso quotidiano e sistemi avanzati. Si trovano in magneti, batterie, schermi, sensori e nei componenti di auto elettriche, smartphone, cuffie, GPU e persino negli aerei da combattimento come gli F-35 prodotti da Lockheed Martin. Apple, Nvidia, Tesla e molte altre aziende occidentali ne dipendono in modo quasi totale.
Nel caso specifico dei robot Optimus di Tesla, alcuni di questi minerali vengono utilizzati per trattare i magneti nei giunti del robot, garantendo il corretto funzionamento anche in condizioni estreme di temperatura. Senza accesso a questi materiali, la catena produttiva si blocca.
Ma il problema non riguarda solo l’hi-tech: anche il settore medicale, come riportato dal Washington Post, potrebbe subire gravi contraccolpi a causa della carenza di queste risorse.
La mossa cinese: un'arma a doppio taglio
Bloccare l’export di terre rare può sembrare una prova di forza geopolitica, ma si tratta in realtà di un’arma a doppio taglio. La Cina è il principale fornitore globale di questi minerali e da oltre cinquant’anni esporta sistematicamente queste risorse verso l’Occidente, ricavandone introiti fondamentali per molte aziende nazionali.
Alcune aziende cinesi, come la Galaxy Magnet, hanno già segnalato agli azionisti di essere in difficoltà a causa di questo blocco, che compromette una parte significativa del fatturato. L’interruzione delle esportazioni verso gli Stati Uniti ha infatti effetti immediati sul business interno, soprattutto per quelle imprese fortemente dipendenti dal commercio estero.
In parallelo, il tentativo cinese di colpire il sistema finanziario USA vendendo le obbligazioni statali potrebbe risultare controproducente: convertendo i dollari ottenuti in yuan, si rafforza la moneta cinese, rendendo più costosi i prodotti d’esportazione per gli altri Paesi e penalizzando così un comparto, quello dell’export, su cui la Cina basa gran parte della propria crescita.
Le contromisure americane
Gli Stati Uniti non sono rimasti a guardare. L’amministrazione Trump, ha risposto con restrizioni tecnologiche, in particolare limitando le forniture di chip Nvidia alla Cina, per rallentare il suo sviluppo nel campo dell’intelligenza artificiale. Anche questa è un’arma a doppio taglio: se nel breve termine limita le capacità cinesi, nel lungo stimola Pechino a cercare alternative e a investire nello sviluppo di tecnologie domestiche.
Allo stesso modo, Tesla e altre aziende stanno cercando di ridurre la dipendenza dalle terre rare. Alcuni progetti mirano alla produzione di motori elettrici che non richiedano tali materiali, mentre altre società esplorano nuove fonti di approvvigionamento, come i giacimenti in Groenlandia (Il vero motivo per cui Trump vuole la Groenlandia), Australia e Sud America.
Conclusioni: chi vince davvero?
L’insieme di queste dinamiche dimostra quanto le interdipendenze globali siano profonde. Gli Stati Uniti eccellono nella progettazione e nello sviluppo tecnologico, ma dipendono dalle risorse naturali che la Cina possiede in abbondanza. Viceversa, la Cina necessita dei mercati occidentali per vendere i propri prodotti e sostenere la crescita economica interna.
È quindi probabile che, nonostante i toni accesi e le misure aggressive, si giunga a un compromesso. Come avveniva nel più antico sistema di scambio della storia, il baratto, ciascuna parte dovrà offrire ciò che ha in abbondanza per ottenere ciò che le manca. Un equilibrio che, per quanto fragile, è ancora preferibile a una guerra commerciale prolungata.
Nel breve termine, sia Stati Uniti che Cina possono infliggersi colpi significativi, danneggiandosi a vicenda. Ma sul lungo periodo, nessuno vince davvero in una guerra economica: le aziende perdono clienti e fornitori, i mercati si destabilizzano, e i governi si trovano a dover gestire conseguenze interne indesiderate.
La lezione più importante di questa vicenda è che l’interdipendenza globale, se ben gestita, può diventare una forza stabilizzante. Ma quando viene utilizzata come arma, porta inevitabilmente con sé costi elevati e nuove incertezze.
In questo contesto, l’innovazione e la diversificazione delle fonti di approvvigionamento diventano non solo una necessità economica, ma anche una strategia geopolitica per ridurre la vulnerabilità e prepararsi a un mondo in cui la tecnologia e le risorse naturali sono sempre più al centro del potere globale.
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