La correlazione positiva tra yen debole e rialzi delle azioni giapponesi si è interrotta da un paio di mesi. Dopo il grande crollo di agosto, a seguito del rialzo dei tassi di interesse da un quarto di punto messo in campo dalla
Bank of Japan che ha determinato le liquidazioni da carry trade, gli indici borsistici di Tokyo si sono mossi in un intervallo ristretto. Nel contempo, però, la valuta nipponica ha oscillato tra un minimo di 139,58 per dollaro e un massimo di 156,75.
Gli investitori hanno sempre percepito che uno yen più contenuto agevolasse le aziende del Giappone, in quanto l'economia nazionale è stata storicamente trainata dalle esportazioni. Tuttavia, questa è una realtà non più valida da 10 anni, poiché il Sol Levante è l'unica grande economia mondiale ad aver registrato nel periodo una crescita sostanzialmente nulla dell'export. Anzi, dal 2019 la bilancia commerciale ha visto più deficit che surplus.
Azioni giapponesi e yen: ecco i motivi della scarsa correlazione
Il coefficiente di determinazione - che misura la correlazione tra azioni giapponesi e yen - degli ultimi due mesi si è ridotto quasi a zero (dati Bloomberg), molto al di sotto della soglia di 0,5 considerata indicativa di una certa relazione tra i due asset.
A determinare questo cambiamento, a giudizio di Hiroshi Watanabe, economista senior e responsabile della ricerca sui mercati finanziari presso Sony Financial Group, è stata la politica monetaria della BoJ. L'esperto ritiene che la Banca centrale abbia spostato l'attenzione dal circolo virtuoso di salari e prezzi al contenimento dell'inflazione causata dallo yen a buon mercato.
"Da maggio, gli investitori sono arrivati a pensare che uno yen più economico spingerà la Banca del Giappone ad accelerare i rialzi dei tassi di interesse", ha detto Watanabe. "Questo, a sua volta, sta spingendo verso il basso i multipli delle azioni giapponesi". Ciò implica che, fino a quando la BoJ sarà più aggressiva della Federal Reserve sul fronte dei tassi, "le azioni giapponesi rimarranno sotto pressione".
Neil Newman, responsabile della strategia di Astris Advisory Japan, ha affermato che, contrariamente a quanto avveniva in precedenza, lo yen forte avvantaggia molte aziende, in quanto il Giappone "non è più un'economia esportatrice". A suo avviso, "c'è ancora l'idea che gli utili societari giapponesi siano sensibili allo yen. In realtà ora è il contrario. Lo yen debole è un male". Al contrario, una valuta forte, "ridurrebbe i costi di input e aiuterebbe i margini di profitto delle aziende perché i prezzi dei loro prodotti scenderebbero più lentamente di quei costi".
Gli investitori preferiscono le aziende giapponesi che producono all'estero
Alcune aziende nipponiche guadagnano ancora parecchio dallo yen debole, tipo Toyota Motor che esporta molto all'estero. Altre, come Hitachi e Sony, hanno invece ridotto l'impatto valutario spostando la produzione all'estero e attuando coperture sul forex. Secondo un'analisi effettuata da Akemi Hatano, Chief Quants strategist di SBI Securities, questo ha comportato che gli investitori prediligano quelle società con alti rapporti di vendita all'estero e scarsa sensibilità alle oscillazioni dello yen.
Si tratta di un cambiamento nella selezione dei titoli molto rilevante rispetto al 2022, quando invece le società prescelte erano quelle più sensibili ai mercati valutari. "Piuttosto che acquistare beneficiari di yen a buon mercato, gli investitori sembrano assumere con cautela il rischio in titoli esteri orientati alla domanda attraverso un'attenta selezione", ha detto Hatano.