La globalizzazione ha permesso a numerose aziende nel mondo di esternalizzare i processi produttivi al fine di risparmiare su alcuni costi (in particolare quelli relativi alla manodopera), di beneficiare di legislazioni più favorevoli o di sfruttare un trattamento fiscale agevolato. La frammentazione dei processi produttivi ha fatto in modo che un singolo bene possa avere componenti prodotti in diverse Nazioni.
Dalla crisi finanziaria del 2008 qualcosa è iniziato a cambiare e si è fatto sempre più spazio la parola reshoring. Vediamo cosa significa questo termine e come mai si sta iniziando ad utilizzare sempre di più nell’attuale periodo storico.
Reshoring: cosa è, motivi e come funziona
Con reshoring (o onshoring, inshoring e backshoring) si indica il processo volto a riportare la produzione delle aziende dall’esterno all’interno dei confini nazionali. Il vantaggio è quello di rafforzare l’economia domestica facendo diminuire la disoccupazione e migliorando il deficit della bilancia commerciale. Riportare le aziende a produrre all’interno dei confini nazionali è stata una delle priorità di diversi programmi politici.
Già nel 2011, l’Amministrazione Obama aveva messo in campo numerose misure al fine di convincere le società a produrre all’interno degli Stati Uniti per arginare il problema della disoccupazione dilagante. Sempre nel 2011, Barack Obama ha lanciato il programma SelectUSA per connettere le aziende alle risorse disponibili a livello federale, statale e locale. Nel 2012, in un discorso al White House's Insourcing American Jobs Forum, il Presidente USA ha ribadito l’importanza del reshoring per colossi come Ford e Apple.
I motivi di riportare l’attività produttiva in patria può arrivare anche senza incentivi pubblici. Negli ultimi anni il costo della manodopera non è più così basso come in passato in quanto nei Paesi asiatici e in quelli dell’Est-Europa (i più scelti dalle imprese) i lavoratori hanno iniziato a richiedere più diritti. A incidere sulla decisione sono anche i costi e i tempi di trasporto, che in alcuni settori hanno un impatto maggiore.
Nel comparto della moda ad esempio la variabile delle tempistiche è più rilevante di quella dei costi. Una spinta al reshoring arriva anche dal cambio di coscienza dei consumatori, che hanno una maggiore attenzione rispetto al luogo di produzione della merce acquistata.
Su questo punto gli elementi considerati di solito sono la condizione dei lavoratori nella Nazione di produzione, dei pericoli inerenti al non rispetto delle normative di sicurezza stabilite dai regolatori degli Stati sviluppati e per la percezione di maggiore qualità derivante dalla produzione dei prodotti all’interno del proprio Paese d’origine. Con la guerra commerciale tra USA e Cina poi, un ruolo fondamentale per il rimpatrio è stato giocato anche dalla tutela della proprietà intellettuale.
Reshoring: il ruolo del COVID e della guerra commerciale
A inizio 2020 sono scoppiati i primi casi di Coronavirus che hanno paralizzato la Cina. Molte società si sono trovate a fronteggiare una situazione non prevista con il blocco delle forniture di componenti dei loro prodotti, ma anche con stop di intere fabbriche in Paesi colpiti dal virus. Il mondo si è accorto come delocalizzare le catene produttive affidandosi a nazioni diverse da quella di appartenenza non è sempre un vantaggio, anzi.
Questo ha portato diversi Stati, come il Giappone, a dare numerosi incentivi alle società che ritornassero all’interno dei confini domestici. Il Paese del Sol Levante ha pagato 535 milioni di dollari a 57 società per rimpatriare la produzione. Al Council on Investments for the Future di marzo 2020, il Premier nipponico, Shinzo Abe, ha dichiarato che intende riportare in Giappone le produzioni di merci ad alto valore aggiunto e per le quali vi è troppa dipendenza da un singolo Stato. Il COVID-19 e la guerra commerciale con la Cina sono invece le armi principali dell’Amministrazione Trump per riportare le società a produrre in USA.
Su quest'ultimo tema, un report rilasciato dalla Reshoring Initiative evidenzia come già nel 2018 il 59% delle operazioni di reshoring ad opera delle aziende USA provenivano dalla Cina. Sempre nel 2018 è stato raggiunto il livello più alto di sempre su questo tipo di iniziativa con 1.389 società statunitensi che hanno annunciato un ritorno in patria, creando 145.000 posti di lavoro.