A Gaza si contano i morti - arrivati a oltre 6.500 - in attesa che Israele entri con i carri armati nel territorio per un attacco via terra. Dall'aggressione al popolo israeliano da parte di Hamas, il gruppo estremista islamico che governa la striscia palestinese, sono passati 19 giorni, e segnali di distensione non se ne vedono. Il conflitto sembrerebbe destinato a essere lungo e sanguinoso.
A preoccupare non è solo la cruenza di quanto sta accadendo alle popolazioni civili israeliane e palestinesi, ma anche il fuoco incrociato tra Israele e gli Hezbollah, gruppo militante del Libano entrato nel conflitto a difesa di Hamas. Si tratta di segnali particolarmente preoccupanti perchè ci dicono che la guerra potrebbe allargarsi con la discesa in campo di protagonisti di altra portata e ben più pericolosi.
La ricaduta sull'economia rischia di essere molto pesante, sia per le tensioni che si verrebbero a creare irrigidendo il commercio sia per i riflessi sul petrolio che potrebbero produrre una nuova crisi energetica.
Il direttore del
Fondo Monetario Internazionale,
Kristalina Georgieva, ha definito l'eventuale escalation del conflitto come un'altra nuvola all'orizzonte in un contesto di prospettive economiche già cupe. "È terribile in termini di prospettive economiche per l'epicentro della guerra, con un impatto negativo sui vicini, sui canali commerciali e turistici, nonché sul costo dell'assicurazione", ha detto il numero uno dell'FMI. Georgieva ha osservato che Paesi come l'Egitto, il Libano e la Giordania ne stanno già sentendo le conseguenze.
Guerra Hamas-Israele: allarme petrolio e crisi energetica
Gli scontri degli ultimi giorni hanno reso più acuto il principale timore tra gli economisti, ossia che tutto il Medio Oriente rappresenti una minaccia per l'energia e il commercio globali.
"Qualsiasi conflitto in Medio Oriente provoca scosse in tutta l'economia mondiale perché la regione è un fornitore di energia cruciale e un passaggio marittimo chiave per il commercio globale", ha affermato Pat Thaker, direttore della regione Medio Oriente e Africa presso l'Economist Intelligence Unit. A suo giudizio, quanto aumenteranno i prezzi del petrolio e l'impatto a catena sull'economia mondiale dipenderanno dall'estensione geografica del conflitto.
Le quotazioni del greggio sono salite rapidamente dopo il 7 ottobre, giorno in cui Hamas ha fatto ingresso a Tel-Aviv uccidendo oltre mille israeliani. Negli ultimi giorni i prezzi sembrano essersi stabilizzati al di sotto dei 90 dollari al barile. Thaker però è convinto che in uno scenario estremo di escalation regionale,
il Brent potrebbe superare i 100 dollari, il che "significa un'inflazione globale più elevata e una crescita economica più debole".
Secondo Wolf von Rotberg, strategist azionario della banca privata svizzera J. Safra Sarasin, l'Iran è il paese chiave in quanto la produzione di petrolio a rischio sarebbe di 1 milione di barili al giorno se Teheran sosterrà Hamas e di conseguenza gli Stati Uniti inaspriranno le tensioni verso il paese arabo. "Inoltre, un aumento dell'incertezza sulle forniture dall'Arabia Saudita potrebbe facilmente far salire i prezzi nella stessa misura in cui hanno fatto in risposta all'invasione dell'Ucraina nel 2022. All'epoca i prezzi del petrolio guadagnarono il 30% nel giro di due settimane prima di stabilizzarsi a circa il 15% al di sopra dei livelli prebellici", ha detto l'esperto.
Elijah Oliveros-Rosen, capo economista dei mercati emergenti di S&P Global Ratings, è preoccupato invece per le economie dei mercati emergenti, dal momento che l'energia rappresenta la fonte principale delle pressioni inflazionistiche. "Nel tipico paniere dell'IPC (indice dei prezzi al consumo), l'energia si aggira intorno al 10% nei mercati emergenti. Negli Stati Uniti è del 6,9%. Quindi ovviamente c'è un impatto maggiore sull'inflazione e inoltre, molti mercati emergenti sono diventati importatori netti di energia", ha osservato. Ciò vuol dire che, "quando si inizia a pensare a quali Paesi potrebbero essere più vulnerabili all'aumento dei prezzi dell'energia, si deve guardare agli importatori netti di energia con un elevato contributo energetico al paniere dell'IPC, quali Cile, Turchia, Thailandia, Filippine e India", ha concluso Oliveros-Rosen.