Brexit: 4 anni dal voto e quella separazione che lascerà il segno | Investire.biz

Brexit: 4 anni dal voto e quella separazione che lascerà il segno

23 giu 2020 - 13:30

06 dic 2022 - 09:51

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Oggi è l'anniversario dello storico referendum in Gran Bretagna. Riviviamo quel giorno del 2016 ripercorrendo le tappe che portarono alla separazione dall'Europa.

"Ogni Stato membro può decidere di recedere dall'Unione conformemente alle proprie norme costituzionali". È questo l'art.50 del Trattato sull'Unione Europea firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992. Nessuno mai tra gli Stati membri aveva indetto un referendum per uscire dall'Europa, ma il 23 giugno del 2016 successe quello che a molti sembrava impensabile: il popolo britannico venne chiamato alle urne e, in applicazione dell'art.50, scelse di congedarsi dall'UE dopo 14 anni di permanenza. Da allora l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione è stata battezzata con il termine Brexit, fusione formata dalla parola Britain ed exit.

Brexit: contesto storico e politico

Cosa portò l'allora Premier britannico David Cameron a indire un referendum di questo tenore? I primi focolai nacquero proprio a seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Maastricht. Il Parlamento del Regno Unito decise autonomamente senza chiamare in causa gli elettori, contrariamente a quanto fecero altri Paesi tipo Francia, Danimarca e Irlanda. Questo sembrò a molti un atto legittimo ma poco democratico e rappresentò il germoglio per la nascita di movimenti politici antieuropeisti, come il Partito Referendario e il Partito per l'Indipendenza della Gran Bretagna (UKIP).

Nel tempo il fronte euroscettico non fu destinato a estinguersi, anzi crebbe sempre di più e alle elezioni europee del 2014 l'UKIP diventò addirittura primo partito con il 27,5% dei voti. A quel punto le pressioni indipendentiste non potevano più essere ignorate, anche perché l'avversione nei confronti dell'Europa Unita si espandeva a macchia d'olio non solo tra le varie forze politiche di destra e di sinistra, ma soprattutto tra gli elettori nei sondaggi.

Così Cameron, che nel 2012 aveva rigettato qualunque richiesta referendaria in merito e nel 2013 ne paventò solo la possibilità, cedette alla pressione di molti dei Parlamentari anche del suo stesso schieramento. Quindi una volta che il Partito Conservatore conquistò la maggioranza a Westminster nelle elezioni del 2015, acconsentì con la votazione nell'aula parlamentare l'Atto del referendum dell'Unione europea.

Il Primo Ministro conservatore si dichiarò però palesemente contrario a Brexit e nel frattempo cercò di negoziare con l'UE riguardo alcuni punti che riteneva fondamentali in tema di immigrazione, burocrazia, esenzione dell'UK riguardo alcune regole stringenti e protezione del mercato unico per i Paesi non appartenenti all'UE.

La trattativa si mostrò essere sin da subito complessa e tortuosa al punto che Cameron prese una decisione importante: nel febbraio del 2016 indette un referendum popolare per stabilire se la Gran Bretagna dovesse rimanere o meno in Europa. Con questa mossa il premier da un lato cercava di conciliare le divisioni interne alla maggioranza sulla questione, dall'altro lanciava un messaggio preciso a Bruxelles ossia che Londra stesse facendo sul serio.

A quel punto si crearono due schieramenti in Parlamento: i Remain di cui facevano parte i Laburisti, i Liberal Democratici, i Verdi, i Nazionalisti scozzesi e buona parte dei Conservatori; i Leave la cui cordata era capitanata da Boris Johnson, che guidava l'altra parte dei Conservatori ed era appoggiato dall'UKIP di Nigel Farage.

Brexit: il referendum del 23 giugno 2016

Il 23 giugno 2016 arrivò il verdetto tra lo stupore generale, visto che tutti i sondaggi davano per scontato il successo degli europeisti: i Leave ottennero il 51,9% dei voti, i Remain il 48,1%. Questo nonostante in Scozia ci fu quasi un plebiscito a favore dei Remain. Solo due anni prima in un altro referendum Edimburgo aveva deciso per il NO all'indipendenza scozzese dalla Gran Bretagna, proprio in ottica di un'uscita eventuale del Regno Unito dall'UE.

Le conseguenze del 23 giugno furono le annunciate dimissioni di David Cameron (avvenute poi il 13 luglio 2016). Il 29 marzo 2017 vi fu la notifica della procedura di uscita ai sensi dell'art.50 del Trattato UE al Consiglio Europeo da parte del nuovo Primo Ministro, Theresa May, dopo l'approvazione del Parlamento britannico.

Come prevede il Trattato la notifica apre una finestra temporale di 2 anni dove le parti, nella fattispecie UE e UK, devono trovare un accordo di recesso che riguarda le future relazioni. Senza un accordo, l'uscita avviene in maniera drastica e disordinata. Il negoziato fu lungo e tormentato e portò alla caduta del Governo presieduto da Theresa May e alle elezioni anticipate che hanno visto il trionfo di Boris Johnson.

Il 23 gennaio 2020 si arriva a un'intesa e il processo di approvazione termina con l'assenso da parte del Consiglio Europeo al recesso della Gran Bretagna dall'Europa. Il 31 gennaio 2020 il Regno Unito non fa più parte ufficialmente dell'Unione Europea. Da allora è iniziato un processo di transizione dove le due parti devono mettersi d'accordo su parecchie questioni lasciate in sospeso riguardo i rapporti commerciali e giuridici. Tale processo terminerà il 31 dicembre 2020.

Le reazioni dei mercati dopo Brexit

L'apertura delle Borse europee dopo l'esito del referendum su Brexit fu all'insegna del panico generale. Un terremoto di portata storica che poche altre volte si è visto nei mercati finanziari. Piazza Affari sprofondò nel più drammatico ribasso fino ad allora mai registrato: 12,48%. Gli operatori si accanirono sulle banche, essendo queste depositarie di una valanga di crediti in sofferenza. Alla fine della giornata gli istituti di credito persero in media più del 20%. Non andarono molto meglio le altre Piazze Europee, con Madrid crollata del 12,35%, Parigi dell'8% e Francoforte del 6,8%. Stranamente Londra, sull'occhio del ciclone, riuscì a limitare i danni, lasciando sul terreno solamente il 3,15%.

Oltreconfine la situazione non fu delle migliori: Tokyo visse la peggiore giornata dal 2000 e New York dal 2011, con gli indici americani che si inabissarono tra il 3,39% del Dow Jones e il 4,12% del Nasdaq.

La Sterlina visse un'autentica mattanza. Non appena furono pubblicati i risultati ufficiali dello spoglio elettorale iniziò una discesa disastrosa che la portò ai minimi sul Dollaro americano dal 1985. Alla fine della giornata perse il 7,46% contro il biglietto verde e il 6% contro l'Euro. Addirittura la Royal Bank of Scotland e la controllata NatWest in serata sospesero i servizi di cambio.

Sull'onda del panico generale le Banche Centrali fecero quadrato e annunciarono interventi congiunti per cercare di frenare la piena che si stava abbattendo sui mercati. In particolare l'allora Governatore della BoE, Mark Carney, dichiarò che l'Istituto Centrale era pronto a fornire fondi extra per 250 miliardi di sterline per garantire liquidità.

La corsa ai beni rifugio fu un'ovvia conseguenza della tempesta furiosa che stava colpendo gli assets considerati più a rischio. Infatti il rendimento dei Bund tedeschi scese fino al minimo storico del -0,17% e gli acquisti sull'oro si susseguirono in maniera sfrenata.

Sullo sfondo l'ombra lunga delle Agenzie di Rating che annunciarono possibili downgrade per la Gran Bretagna, considerando il risultato elettorale un autentico salto nel buio.

Da allora ad oggi la situazione britannica non è naufragata, pur nelle difficoltà oggettive di una separazione dall'Europa che verosimilmente lascerà degli strascichi. Probabilmente il fenomeno epocale del Covid-19 amplificherà i punti oscuri di tutta la vicenda e solo quando la Gran Bretagna muoverà i passi completamente da sola vedremo con maggiore nitidezza gli effetti di quello che è stato per tutti quanti Brexit.

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